Un uomo si siede al tavolo, ordina da bere. Sbuffa: “La giornata è andata anche oggi”. Mentre il tempo scorre tutto quanto attorno si ferma. Verso una inesorabile rivalsa dell’abitudine sul mistero.
Suona un’armonica; la radio spalma onde sonore sulla testa di una famiglia di amici. Parlano di Gaber; della Prima Repubblica e dei tempi passati. La storia è memoria densa, di strati. Io stesso cavalco l’onda del ricordo. Riverbero l’entità vivente lo spazio; la costringo, come faccio con il mio corpo, a raggrupparsi attorno agli attimi più rilevanti. Lì attorno gli eventi sono come opere magiche: si trasformano senza chiedere il permesso.
Questa sera fingo di essere me stesso, voglio essere scrittore. Infondere alle parole la vita. Quella vera. Provare a lasciare ogni porto sicuro, ogni frase conosciuta, ogni appiglio morale. “Pietà! Invoco Te, Signore della Pietà!”… Che noia! Quante storie vivono nel tempo. Ma poi esso dispiega l’irraccontabile.. Non provo più niente. Vento e morte nelle parole. Vuote. Dormienti.
Sono le 21 e la Valpolcevera va a dormire. Non si rende conto di quanto ha prodotto oggi: amore, odio, frustrazione, speranza. Viaggiarla è come navigare nell’olio esausto. “Se quel bus si fosse fermato.. cazzo .. E ora?” Alla fermata un vecchio, non tanto tale, consumato dall’aria torbida di questa valle. “Pago questa merda di abbonamento.. Questi cazzo di autisti.. Ci vai in pensione con il contratto indeterminato AMT.. Perchè non essere una brava persona e fare il tuo fottuto lavoro?”.
Ad un tratto mi ricordai che avevo con me i libri. Iniziai a scrivere con foga le lettere dei personaggi.
Lui era in piedi, alto nel suo cappotto bruno e la sigaretta fumante. Rifletteva nelle sopracciglia scure il sudore delle meningi spremute, come gli agrumi siciliani. Ripeteva la parte, dannata del suo monologo:
“Forse alcuni non lo sanno, o non credo in generale possano, che la totalità delle cose si genera nella meta realtà, ovvero prima di manifestarsi in fronte ai sensi, dai sensi. Eventualmente si tratta di un processo simultaneo di attraversamento di forma e contenuto, di direzionabilità dei significati nello spazio del linguaggio. Normalmente viviamo nella immediatezza, ma della ripetitività. Così fanno i gruppi di persone e le strutture orientative dei significati collettivi, per rendersi ordinati nel movimento”.
Mr. Petrov veniva da una famiglia nobile del Mar Baltico. Parlava il russo e aveva lavorato come diplomatico presso il Partito. Conosceva la lingua della matematica, nella filosofia più semplice e sintetica. Aveva studiato alla Società Teosofica in Inghilterra e conosceva l’alfabeto occulto.
“Il movimento è oggetto e soggetto della variazione, dello spostamento. Così che la grammatica più generale dell’organizzazione della realtà di una porzione di mondo (o del Mondo) si solidifica per non disperdersi. Nella meta realtà, dove si genera ciò che poi si vive integralmente, queste regole non esistono. Le regole che conosco della realtà non servono altro che alla realtà che conosco, esperisco e vivo”.
In scena sul palco aveva a disposizione solo le tavole ben serrate a terra del pavimento laccato, una luce puntata e un posacenere, alto e sottile ad altezza bacino.
“Io non vorrei criticare, ma faccio fatica a non esprimere il mio giudizio, che sento fondato da una forte sensazione e da una serie di riflessioni e ragionamenti. Vorrei provare, senza mettermi fretta, a spiegare che vedo il linguaggio (quantomeno parlato e scritto) come una traiettoria in cui gli agenti che lo compongono sono una riproduzione della propria potenza, nell’impatto. Lo raffiguro come uno strumento diversificato e, soprattutto, diversificante. In esso convivono gli elementi della creazione e della distruzione, i quali si alternano, impastano, scontrano nei diversi paradigmi strutturali in cui il linguaggio viene addomesticato. Nell’addomesticazione il linguaggio è un corpo morto, come una marionetta messa in scena nel movimento dell’immagine della realtà. Il linguaggio, in tutte le sue forme, è successivo. Effettivamente per poter essere vivo, cioè intercomunicante nelle sue parti componenti, esso deve sparire. Letteralmente il linguaggio deve esperirsi essendo. Quand’esso riproduce se stesso, il suo strumento, criterio di validità, dunque l’ecosistema che lo sorregge (direttamente e indirettamente), conferma solo la realtà apparente: la ammaestra e conduce meccanicamente. Ecco che il linguaggio è uno strumento vuoto dalle capacità sociali. Ciò ci può aiutare a riconoscere la qualità con cui questo spazio viene riempito di significato”.
Ecco che il dialogo cade nella moralità per non essere disgustato, snobbato.
“Questo aspetto del linguaggio è per me quello relativo alla attuale percezione della terrestrità, cioè della fattibilità dell’uomo di essere. E’ una esperienza ontologica fisicamente metafisica. In questo senso il linguaggio non esiste, è una componente irreale della stasi del movimento”.
Mr. Petrov aveva imparato dai monaci tibetani che per poter muovere l’immobile bisognava imparare a parlare il silenzio, cioè a separare l’irrealtà dell’immagine, ed evocare a potenza l’immaginazione del reale.
“Ma questa speculazione filosofica è frutto del ragionare astratto. E io non sono a favore della speculazione, soprattutto di quella accademica. Il linguaggio è uno spazio da svuotare prima e riempire poi di significati fertili. E’ fatto per raccontare storie accattivanti ed emozionanti. Per descrivere l’umanità nella sua tremenda faccenda”.
Forse il linguaggio, nell’ordine delle cose dell’essere, rappresenta il suono. I suoi simboli, cioè i corpi delle cose, gli involucri viventi delle verità. Non so più niente, ma vale la pena mettere in scena il nulla.