C’est la vie, Petrov!

astrazione geometrica

A: Quando si tratta di verità, la mia mente si dirige verso un senso che descrivo come giustizia sociale. 

B: Qual’è per te caro Petrov, lo strumento per determinare la giustizia?

A: La totale desolazione che provo nell’essere me stesso in mezzo al mondo, mi porta a trovare appiglio nei linguaggi dell’umanità per comprendere la mia natura. Mi appoggio ad una fonte di linguaggio comune, per esempio a quello che della scienza è il processo esplorativo di una possibile e reale circostanza del vivere. Qui mi ritrovo a navigare su una piattaforma in cui sono pari solo a coloro che lo stesso linguaggio riconoscono come valido. 

B: Allora mi chiedo se per giustizia intendi scientificamente, rendere lecita la diversità di opinione come un elemento variabile della ricerca sociale? 

A: Sì, e accettare che non vi sia una verità nel linguaggio usato che possa rappresentare nel vero la comunità intera. 

B: Ho capito, forse cerchi Dio nell’uomo. Lo hai trovato?

A: Non saprei come fare, non esiste più per come lo abbiamo conosciuto. 

B: Forse quel che non esiste più fuori, si trova ora da qualche altra parte.. In quale cosmo hai cercato?

A: Non so se posso uscire dal mio..

Riconosco che non sia possibile definire una verità sociale universale almeno nel contesto dell’azione temporale, cioè nel momento in cui prende forma la ricerca, ma solamente nell’atto del ricercare poichè include tutti e nessuno. 

Mi dico che solo il processo è democratico, mentre l’azione è esclusiva di chi la compie e di chi la riceve. Quindi sono io e il mondo. Un figlio separato dalla madre. Una creatura nata da e verso, senza spiegazione apparentemente reale, ma realisticamente apparente.

Narratore: Nel dialogo si vuole accennare alla diversificazione della descrizione del reale, parlando della scienza come dottrina, della fede come proto-verità, del dramma, del mito come condizione da cui svelare il mistero della vita, della comunione, della propulsione alla ricerca, all’abbandono e alla celebrazione della vita! Si verifica così una situazione del ricercatore, il quale sprovvisto degli strumenti di lavoro, si conserva nella sua posizione. Si trasforma da un portatore di linguaggio scevro, paragonabile ad un elemento naturale, in un linguista, un artigiano, un esponente della condizione di cui è maestro.

B: D’altronde la questione è semplice. Non esiste l’acqua da sola, ma “vive” attraverso la condizione di trasformazione e movimento. Solo così la capiamo. Ma nel tuo caso Petrov, parli della natura sociale dell’uomo e della giustizia che lo rende umano per gli altri. Cosa ti ha mosso?

A: La limitatezza della ricerca mi ha reso inerme di fronte al sapere, alla speranza di trovare in fondo una sicurezza ancestrale in questa disperazione che provo. Mi ha mosso la necessità di essere amato.

B: Uscire al mondo nelle sue vicende, non ha senso per nessuno. Tutti quanti noi ci adagiamo per così dire su quello che c’è, e soffriamo in cerca di qualcosa da ricevere e dare. Ma penso anche che tu non veda solo attraverso il paio di occhiali “scientifici” che vesti ora nel discorso. Che ne è dell’amore, dei sogni e dell’immaginazione?

A: Mi rendo conto che i presupposti per cui decido di considerare il processo scientifico come un luogo della ricerca sociale, siano una condizione data dalla mia posizione all’interno dell’ecosistema sociale e dalle mia capacità di rendermi parte del mondo, che è per descrizione processuale del linguaggio scientifico, un’esternalità apparente della cultura o di una condizione psico-percettiva della realtà.

Sono dunque di fronte ad un vaglio, il quale mi vede rappresentante di una manifestazione culturale nei confronti di un processo potenzialmente bruto, scevro, inappropriabile. Mi vede “prima” uomo di scienza e non portatore di processi scientifici. 

Perché proprio della scienza mi occupo in questo ambito? Per rispondere alla tua domanda relativa al resto. E’ in quel resto che dimoro, da cui mi muovo per capire cosa spinga l’umanità a decidere di un linguaggio sull’altro, di una morte sulla vita, di una verità particolare, di una direzione da seguire.

Narratore: Pubblico, che ne è del corpo? Cosa ne abbiamo fatto? Tagliato a pezzi e sezionato in singole parti? La testa, le gambe e le braccia. Il cuore, i polmoni, le dita delle mani. Perchè non si canta più? Non si balla, non si celebra la vita in questa cultura?

B: Mi rendo conto che l’esternalitá sociale della ricerca scientifica sul vero, cioè quella parte che intendo da te, che lavora sulla superficie del dialogo, riveli le condizioni della realtà visibile a tutti. Ma il vero visibile è dato per “incompleto” a tutti intimamente. Ciò significa che mai il risultato della ricerca, qualunque sia, potrà liberamente soddisfare i bisogni della comunità sociale, ma sempre e solo i suoi esponenti e ascoltatori. 

A: Penso che il risultato della ricerca sia opinabile. Perde il suo senso di giustizia sociale dal momento in cui è incomprensibile per alcuni. Entra nella separazione che è insita nel mondo polare del visibile, del reale accessibile con questi strumenti. 

In parte ecco perché credo, che la scienza, la fede, la verità, dopo un certo utilizzo siano strumenti di potere nel senso amoralistico. Si trovano ad essere impossibilitati a rappresentare le diversità, ma solo di spiegare ai loro simili le differenze e in qualche modo (non sempre condiviso), di convincere il resto.

B: Perchè? Perchè questa impossibilità?

A: Se ti dicessi la mia verità colpirei una parte di umanità. E lo farò perchè è necessario tanto morire quanto vivere.

Perchè non è vero niente. L’unica verità mentale, nel senso fisico delle possibilità, è che non c’è niente qui per questa ricerca. Si tratta di una ricerca al contrario: verificare l’impossibilità è una conferma dell’adempimento di un percorso la cui risposta non appartiene a questi strumenti di valutazione. 

B: Allora se nel ricercare il ricercatore si compie, il suo strumento è variabile, come lo è la manifestazione della verità sociale nelle sue vesti culturali. Ogni cosa è vera nell’ordine della libertà. 

A: Chiamo egemonica la condizione in cui mi trovo, cioè una perpetuazione del costume della ricerca. Come a dire che, la condizione in cui l’ecosistema culturale e sociale dove esisto proponga una soluzione senza mezzi termini. 

Credo che il mondo sia cambiato nella percezione, soprattutto nella rappresentazione delle verità individuali. Questo porta alla distruzione delle classi paradigmatiche della speculazione novecentesca sul vero. Tornano i miti come forme descrittive dell’altrove. E il ricercatore si trova nella condizione di ricercare al di là degli strumenti. Capisce che il campo di azione è nell’aldilà del risultato, che io considero l’atto stesso della manifestazione processuale della ricerca. 

B: Buon viaggio Petrov. Ti auguro di essere amato in questa terra. Di amare come fai tutti i giorni. Grazie.

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