Mr. Petrov

uomo di schiena, cappotto nero

In piedi, alto nel suo cappotto bruno e la sigaretta fumante. Rifletteva nelle sopracciglia scure il sudore delle meningi spremute, come gli agrumi siciliani. Ripeteva la parte, dannata del suo monologo:

“Forse alcuni non lo sanno, e non sempre possono, che la totalità delle cose esiste nella meta realtà, ovvero in un luogo assai reale che si manifesta nei sensi, dai sensi. Eventualmente si potrebbe parlare di un processo simultaneo di attraversamento di forma e contenuto, di direzionabilità dei significati nello spazio del linguaggio. Normalmente viviamo nella immediatezza, ma della ripetitività. Così fanno i gruppi di persone e le strutture orientative dei significati collettivi, per rendersi ordinati nel quotidiano”.

Mr. Petrov veniva da una famiglia del Mar Baltico. Parlava il russo e aveva lavorato come diplomatico presso il Partito. Conosceva la lingua della matematica, ma amava l’arte e le scienze sociali. Ne sapeva di filosofia, nella forma più semplice e sintetica. Si era interessato agli studi esoterici della cultura europea e poteva parlare l’alfabeto occulto perché sulla sua pelle, viveva un sottile strato di reale chiaroveggenza.

“Il movimento è oggetto e soggetto della variazione, dello spostamento. Così che la grammatica più generale dell’organizzazione della realtà di una porzione di mondo (o del Mondo) si solidifica per non disperdersi. Nella meta realtà, dove c’è ciò che si vive integralmente, queste regole non esistono. Le regole che conosco della realtà non servono altro che alla realtà che conosco, esperisco e vivo”.

In scena sul palco aveva a disposizione solo le tavole ben serrate a terra del pavimento laccato, una luce puntata e un posacenere, alto e sottile ad altezza bacino. Odiava la performance come atto fine a se stesso, riproduttivo. Sognava di fecondare ogni cosa facendo l’attore, di ravvivare tutti quegli angoli di vita già morti che disegnavano le facce scure delle persone.

“Io non vorrei criticare, ma faccio fatica a non esprimere un giudizio, che sento fondato da una forte sensazione e da una serie di riflessioni e ragionamenti. Vorrei provare, senza mettermi fretta, a spiegare che vedo il linguaggio (quantomeno parlato e scritto) come una traiettoria in cui gli agenti che lo compongono sono una riproduzione della propria potenza, nell’impatto. Lo raffiguro come uno strumento diversificato e, soprattutto, diversificante. In esso convivono gli elementi della creazione e della distruzione, i quali si alternano, impastano, scontrano nei diversi paradigmi strutturali in cui il linguaggio viene addomesticato. 

Nell’addomesticazione esso è un corpo morto, come una marionetta messa in scena nel movimento dell’immagine della realtà. Il linguaggio, in tutte le sue forme, è attraversante ma successivo, cioè è parte del processo come aspetto esterno, e per un certo senso orizzontale di concepire il tempo, viene temporalmente dopo. Per poter essere vivo, cioè intercomunicante nelle sue parti componenti, esso deve sparire, o tornare indietro nel tempo. Letteralmente il linguaggio deve esperirsi essendo. Quand’esso riproduce se stesso, il suo strumento, criterio di validità, l’ecosistema che lo sorregge (direttamente e indirettamente), conferma la realtà apparente: la ammaestra e conduce meccanicamente. Ecco che il linguaggio è uno strumento vuoto dalle intrinseche evoluzioni sociali. Ciò ci può aiutare a riconoscere la qualità con cui questo spazio viene riempito di significato”.

Fece una pausa per tirare alla sigaretta e godere come non mai del fumo che scende, denso e saporito nel petto, luogo del misfatto dell’amore.

“Questo aspetto del linguaggio è per me quello relativo alla attuale percezione della terrestrità, cioè della fattibilità dell’uomo di essere se stesso e parte del pianeta. E’ una esperienza ontologica fisicamente metafisica. In questo senso il linguaggio non esiste, è una componente irreale della stasi del movimento”.

Mr. Petrov aveva imparato dai monaci vietnamiti che per poter muovere l’immobile bisognava imparare a parlare il silenzio, cioè a separare l’irrealtà dell’immagine, ed evocare a potenza l’immaginazione del reale.

“Ma questa speculazione filosofica è frutto del ragionare astratto. E io non sono a favore della speculazione.. Il linguaggio è uno spazio da svuotare prima e riempire poi di significati fertili. E’ fatto per raccontare storie accattivanti ed emozionanti. Per descrivere l’umanità nella sua tremenda faccenda”.

Un silenzio e poi un inchino al battito di mani. “Ma perché questo rumore? Perché il rumore per “rompere il silenzio”?”. Le domande retoriche di Petrov lo accompagnano nel corridoio del teatro, bellissimo e antico nelle sue forme. “Quanto suono è passato in questo legno! Se ogni creazione è relazione di ente e materia, allora questa struttura conosce il segreto delle parole! Ha trasudato ogni verso, musica e mistero del palco e della platea, ha impregnato le fibre con le vibrazioni dei passi del pubblico, delle standing ovation, dei camerini e di tutti gli attori!!”. Petrov si prendeva a puntate, mai fino in fondo per scelta e neppure per lungo tempo. Accadeva che si accendeva come un fiammifero al buio di una profondità immediata, trascendente. Non gli rimaneva tempo per scegliere. Un po’ come quando si muove un arto, che non si coglie la forza sprigionante della volontà di muoverlo, ma se ne vivono le dirette manifestazioni. 

Sul sedile della sua auto parcheggiata c’era un libro di Italo Calvino, Le città invisibili, uno zippo grigio e un pretzel insacchettato. La radio si accende in automatico ma i finestrini sono ancora manuali. Mr. Petrov sfreccia con la sua Ypsilon Dieci verde verso casa mentre le rondini spaccano i tramonti sopra il cavalcavia della sua periferia. Anna lo aspettava per la notte.


3 risposte a “Mr. Petrov”

  1. […] Petrov si rigirava nel letto. Le confessioni di un amore sono come il petto che aprendosi lascia spazio al cuore di muoversi, al respiro di allargare la “gabbia toracica”, al tempo di sparire. “L’ardore. La fiamma dell’amore che incendia ogni volta il tuo sguardo. Io che guardo ai colori delle mie sensazioni nei tuoi occhi, finestre sul mondo, porte verso te, l’ignoto, me stesso. Mi perdo mentre mi trasporti in campi coltivati, tra gli sforzi, i canti, le genti e gli animali che sfumando all’orizzonte, s’impastano con la terra, la farina e le pietre”.  […]

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