Cantito d’estate

libellula al vento

Guardo gli alberi e li vedo muovere al vento. L’elasticità dei loro rami, la tenerezza delle foglie e gli uccelli sparsi nella chioma. Tutto si muove come in un corale passo orchestrale di gesta.

Non mi si svuota questa penna, mentre la bellezza riempie i pensieri che si aggrovigliano in cunicoli, dove piano ella evapora, trasuda le mura della mia solitudine.

Sono nato nel sole di Maggio e nel canto delle rondini, ch’oggi guardo volteggiare nelle parole del cielo. Camminando in questo mondo mi sono accorto non fossi più solo. Che ciò che penso e dico esiste già, in una qualche forma, tutt’attorno nelle cose. Nei negozi, nelle scritte, nei depliant dei giochi seri dei signori.

Scorre in fretta il tempo nella società d’individui. Passo dopo passo si esaurisce la speranza, che io chiamo magia, di cambiare le sorti della propria esistenza. Si procede come componendo un puzzle i cui elementi non disegnano la fantasia, bensì costruiscono il futuro del domani. E’ come quando cerco di fare la pace e fingo di sapere i motivi della mia rabbia. Invece giudico, li cerco tra la gente, nei ricordi, nei fatti, che tutto immerso nella paura, come i panni non centrifugati, sgocciola spazi vuoti, buchi nel pavimento.

Quella geometria che mi appare agli occhi diviene un salvagente a cui aggrapparsi, nell’eterno esistere delle cose. Ogni singolo momento della realtà diventa un fatto. E come in una sequenza infinita di atti, si colloca nella libreria delle cose e rimane, tra una polvere e un accadimento, immobile.

Come fa un pescatore a prendere i pesci?

Sono esseri che navigano nel fluire delle acque, nel continuum improvviso di sicurezze e smarrimenti.

“Sai, usano i piombi nelle lenze. Vanno a fondo i pensieri liberi; piuttosto non possono essere presi. A quel punto sei come l’aria.”

Certi avvenimenti mi hanno cambiato dalla testa ai piedi. Quelli che racconto alla coscienza sociale sono i segreti delle mie gioie e tormenti. Ma la verità è che voglio capire qualcosa che non ha bisogno di me.

Io penetro le situazioni con uno stato di presenza per cui a volte non ho elementi in comune, di risonanza, con il vivere civile. Le aspettative di una società mi appaiono allora come riflessi irreali delle mie paure e speranze, e mi chiedo, in fondo, se parte di queste non lo siano davvero.

Lo sono.

Come irreale è il sogno per la veglia quando questa, a guardare al buio del mistero non si sia mai davvero lasciata smarrire.

Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate.

Il mondo che ho creato è in parte qualcosa che non mi appartiene. Un elemento di una scenografia comune ove una sempre diversa sceneggiatura riempie di caos l’ordine apparente. Trovo una sottile somiglianza tra il grado di libertà, di solitudine e di creatività. Si trasforma come una vera “evocazione reale” della realtà, nelle sembianze dell’essere. Neppure l’essere, in quanto creatura manifesta, basta a rendere l’idea della scomodità spazio temporale che egli è. La creatura è un tutt’uno con il suo esistere, muovere, essere-agire.

Siamo diventati ottimi focalizzatori di una manifestazione; abbiamo fermato l’universo con una immagine. Ma perchè riprodurre solo immagini immobili? Questo sistema di valutazione dell’essere è un momento storico passeggero. Le statue viventi oggi circolano per il globo terrestre; alla ricerca della loro rinascita tendono a liberarsi degli involucri che hanno appresso.

In questa società dobbiamo svezzare la nostra dipendenza. Una volta lasciato lo spazio materno ricerchiamo e ritroviamo lo stesso cordone ombelicale a cui siamo succeduti. Questo cordone è una divinità cambia forma, che trasmuta in ogni interna declinazione dell’essere della creatura.

Devi creare il tuo rito di iniziazione.

Devi imparare a morire da vivo.


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