A spasso per la città (di Genova)

panchina e finestra

Nel tempo delle commedie, ogni vicenda quotidiana sembra essere una performance a cielo aperto. L’autore dichiara di esserne parte, tranne che per i personaggi dei racconti.

Tra i vicoli vicino a Piazza Banchi e Via di Sottoripa c’è uno spiraglio di vento che sale dal mare. Corre per la Piazza vuota di Caricamento, dove affaccendate le persone si spostano come pacchi, qua e là tra l’ondeggiare delle tende nei negozi. Dalle vetrate, la condensa del fiato di Anna appanna la vista della giornata d’inverno. 

“Ciao bella, ce l’hai una monetina? Fa freddo fuori e vorrei mangiare!”. 

Quanta pazienza si crea dalla disperazione? Se lo chiedeva spesso Anna.  Soprattutto diceva: “Io non so cosa voglia dire essere senza niente. Ho sempre tutto quello che si può considerare il minimo indispensabile”. 

A Genova vivevano da poco tempo, quasi da sempre si sentivano estranei ad una città che non si faceva mai conoscere. Erano felici tutto sommato. Il mare, la montagna, le abitudini più semplici. Si sentiva spensierata, come uno straniero in terra nuova, elettrizzata dalla moltitudine di cose che non conosceva.  

Eppure la domenica quando le strade erano più vuote e le persone, piene delle loro questioni si ritrovavano nei bar, non poteva fare a meno di vedere la società rivoltarsi nei visi, in quei costumi che si indossano nelle giornate di festa. Si diceva: “Sono un’estranea a chiunque”. 

Gli studi l’avevano a sua insaputa condizionata, e a tratti capiva solo quello che voleva del mondo. Parlava di guerre, di rivoluzioni, dell’importanza dell’arte e della politica. Inciampava però, timidamente, quando esposta ai riflettori della propria ombra. Accadeva per esempio nelle occasioni in cui la società civile si riuniva nelle piazze in onore di una causa piuttosto che di un’altra. A volte incontrava le medesime persone e si chiedeva: “Come mai anche tu qui? Condividiamo le stesse idee?”.

In Via Luccoli tutto brilla sempre, e in ogni periodo dell’anno le cose sono in ordine. Puoi vedere neo laureandi scegliere un libro negli scaffali della conoscenza, coppie tenersi la mano, gruppi di amici parlare ad alta voce seduti ad un tavolo ricco di aperitivi. “Gli aperitivi non li ho mai capiti. Sono la visione più superflua del cibo visto come intrattenimento della personalità. Se posso li evito”. 

“Ciao! Scusa ce l’hai una monetina?”

“Come possa una città pensare così distante senza saper dare decenza alle proprie genti?”. Anna si chiedeva cosa fosse la povertà. La vedeva ovunque. Prima nel cuore degli esseri umani, poi nelle possibilità delle sue esperienze di vita nella società civile. 

Così rapprese nei propri ideali, le persone sono cavalli ciechi senza maestro. Tutti corrono all’ippodromo delle proprie individualità. “Lotta vera! Lotta per il popolo!” cantava una ragazza. Quelle parole le toccavano l’animo, la facevano sentire bene, e parte di un senso. Ma non capiva perché tutto questo le occultasse la vista. La voce degli altri le imprimeva una totale mancanza di direzione morale, non la lasciava libera. 

Genova le confondeva le idee ogni volta. La convinceva e poi la derubava della sua ingenuità di semplice persona di provincia. Si diceva: “Condurrò una vita degna per poter donare denaro ai senzatetto senza morire di fame. Sarà possibile?”.

“Ci si emancipa da se stessi. Ma si può essere qualcosa senza gli altri?”

C’era scritto questo nel manifesto trovato camminando. Lo aveva staccato e portato con sé. Parlava di un movimento che si dichiarava comune, e che vedeva come misura del cambiamento l’individuo. Sembrava un movimento di rivoluzione individuale. 

L’aveva stregata! Decise di partecipare ad un incontro.


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